“Stringiamoci l’un l’altro prima di tornare lontani”
Il paese in ginocchio, anzi no, seduto in poltrona a guardare terrorizzato in tv l’edizione straordinaria del Tg che annuncia che L’Italia, il tricolore, in questo periodo, tricolore più non è, ma si tinge di rosso perché un’invisibile presenza minaccia la salute di tutti e, con estrema semplicità, passa di mano in mano, di bocca in bocca, di sguardo in sguardo. Allora siamo chiamati all’isolamento per il bene di tutti, per salvaguardare la salute di chi da solo, con le proprie forze, non ce la farebbe a combattere questa guerra. Così, d’improvviso, la rabbia, l’invidia e la discriminazione scompaiono, lasciando il posto a compassione e solidarietà.
Il nostro vicino, quello antipatico che ci ruba sempre il posto migliore nel parcheggio, che sbatte il portone quando rientra alle tre di notte, che non salutiamo quando lo incontriamo per le scale perché “neanche se lo merita”, ci manca.
Ci manca il collega, quello fannullone che viene a disturbarci mille volte alla scrivania mentre siamo concentrati, quello che vuole raccontarci la sua vita come se fosse il racconto più entusiasmante che ci troveremmo mai ad ascoltare e invece non ce ne può fregare di meno, perché a noi, degli altri, in tempi normali, non ce ne frega un tubo. Invece adesso daremmo qualsiasi cosa per permettergli di entrare a gamba tesa e frantumare il nostro momento creativo.
Ci manca la zia, quella appiccicosa, che ci dà pizzicotti e mille carezze prima di lasciarci scappare lontani e finalmente liberi dal suo abbraccio stritolante.
Gli abbracci, proprio quelli ci mancano di più, oggi che ci dicono di stare “ad un metro dal prossimo” ci mancano. Ci mancano le strette di mano, i baci e le pacche sulle spalle, perché a noi manca sempre quello che non possiamo avere nel momento in cui ci viene negato e mai un istante prima, quando potremmo approfittarne e farne tesoro.
Oggi ci manca quella vita a cui, autonomamente, abbiamo rinunciato per sostituirla con una nuova, con una vita tecnologica che va costantemente di fretta e ci pone a mille metri di distanza dagli altri.
Ma all’improvviso arriva “lui” e ci obbliga a fermarci; con un ceffone ben piazzato ci desta da quel sonno sociale in cui ci eravamo calati e, in un solo giorno di isolamento, ci ricorda che in compagnia è tutto più bello, che il mondo da solo non gira, che darsi una mano, sostenersi, comprendersi e difendersi, ci tiene al sicuro, crea la barriera protettiva contro il male peggiore, la paura.
Così ci ritroviamo a cantare tutti insieme affacciati ai balconi e alle finestre, stretti in un invisibile abbraccio, per sostenerci l’un l’altro e alleviare il peso dell’angoscia che ci attanaglia in questi giorni bui. E i bambini tappezzano terrazze e finestre di arcobaleni, rassicurandoci ed esortandoci a non temere, a non mollare perché “tutto andrà bene”.
Ebbene, afferriamo questo momento e non lasciamolo scappare, facciamo in modo che permei nella nostra essenza e lasci una cicatrice che continui a tirare e bruciare anche quando torneremo alla vita normale. Quando la tecnologia tornerà a farla da padrona nelle nostre giornate, per nostra scelta e non per imposizione. Quando il vicino ricomincerà a sbattere il portone, il collega a fare di nuovo capolino dietro il monitor del pc e la zia a stringere nuovamente, ma con più vigore, le nostre guance tra le sue dita sudaticce e cicciottelle.
Non lasciamo che questo enorme sacrificio a cui oggi siamo chiamati scivoli via come un brutto ricordo, ma teniamolo stretto in un angolo della nostra anima e stringiamoci in un grande abbraccio prima di ritornare lontani.
Valentina C.
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